Giovedì 17 giugno 2021 sarà senz’altro ricordato come un giorno decisivo per la storia italiana in ordine al dibattuto e controverso tema del suicidio assistito.
Per la prima volta un Tribunale, quello di Ancona, ha imposto ad una Asl di verificare le condizioni di un paziente, per stabilire se possa accedere o meno al suicidio assistito, seguendo in via antesignana, quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza emessa il 22 settembre 2019.
Quest’ultima, pronunciandosi sul cd. “caso Cappato – DJ Fabo”, nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. relativo al suicidio assistito, aveva ritenuto “non punibile, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”(Corte Costituzionale n. 242 del 2019) .
Protagonista della drammatica vicenda su cui si è pronunciato il Tribunale Ordinario di Ancona, è un giovane marchigiano di 43 anni, che a causa di un grave incidente stradale, è rimasto tetraplegico per circa 10 anni; tale condizione, a cui si sommavano altre gravi patologie, lo ha spinto, nell’agosto 2020, a chiedere alla sua Asl di verificare la sussistenza delle condizioni enucleate dalla Corte Costituzionale, proprio nella citata sentenza.
Tuttavia, l’Asl marchigiana consultata, aveva respinto la richiesta del paziente, senza attivare le verifiche imposte dalla Corte Costituzione in ordine alle tre circostante principali:
1) l’indispensabilità “vitale” dei trattamenti sanitari speciali;
2)l’irreversibilità della patologia, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili e insopportabili;
3) la piena capacità di intendere e di volere del paziente.
In seguito a tale diniego, l’uomo presentava la propria istanza al Tribunale di Ancona, il quale, in un primo momento, legittimava la posizione dell’azienda sanitaria, assumendo che, pur sussistendo i requisiti individuati dalla sentenza della Corte Costituzionale, non fosse possibile obbligare l’Asl e i suoi operatori ad effettuare le procedure per il c.d. suicidio assistito.
Solo dopo il reclamo presentato dall’istante allo stesso Tribunale civile di Ancona, quest’ultimo ribaltava la precedente decisione, ordinando all’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche di provvedere, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, ad accertare “se il reclamante sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili”; “se lo stesso sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; “se le modalità, la metodica e il farmaco (Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi) prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile (rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa, e ad ogni altra soluzione in concreto praticabile, compresa la somministrazione di un farmaco diverso)”.
In definitiva, la decisione assunta dai Giudici del Tribunale marchigiano, rappresenta sicuramente una tappa importante per l’affermazione del diritto di pretendere che, quantomeno, vengano effettuati gli accertamenti necessari ai fini della possibilità di accedere al suicidio assistito; ciononostante, la strada per ottenere l’effettivo riconoscimento di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nel c.d. “caso Cappato”, non potrà dirsi del tutto definita, finché non vi sarà un chiaro intervento legislativo in merito.

Articolo redatto dalla Dott.ssa Silvia Gismondi.

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