Il fenomeno del mobbing lavorativo è sicuramente noto come una delle pagine più amare e sofferte del panorama lavorativo italiano, tanto da aver assunto nel tempo una connotazione sempre più complessa e articolata non solo dal punto di vista psicologico e sociologico, ma anche da quello prettamente tecnico-giuridico.
La definizione più esaustiva data dalla giurisprudenza civile è quella che ha identificato il mobbing nella “condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente” (Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 17 febbraio 2009, n. 3785).
Tanto premesso, la questione recentemente affrontata dalla Cassazione penale ha riguardato la più circoscritta possibilità che tali condotte mobbizzanti possano giungere ad integrare il reato di “Atti persecutori” di cui all’art. 612 bis c.p. (cd. reato di stalking), posto che di norma gli atti molesti del datore di lavoro sono confinati e realizzati esclusivamente nell’ambito lavorativo, senza alcun risvolto nella vita privata del dipendente.
È proprio partendo da tale assunto che l’amministratore delegato di una S.r.l., sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliare per il reato di stalking a danno di una dipendente, aveva presentato ricorso per cassazione sul presupposto che i comportamenti integranti il mobbing, allo stesso ascritti, non potevano essere inquadrati nella più grave fattispecie criminosa di cui all’art. 612 bis c.p., data la totale diversità di ambiti che li caratterizza, lavorativo l’uno e privato l’altro.
La Corte di Cassazione, tuttavia, confermando la pronuncia di merito, ha stabilito che le condotte mobbizzanti del datore di lavoro possono integrare il reato di stalking qualora “la mirata reiterazione della pluralità di atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro” cagioni uno degli eventi delineati dall’art. 612 bis c.p.., così determinando l’assoluta l’irrilevanza del luogo materiale ove tali fatti si verificano.
Più nello specifico, gli Ermellini con la sentenza n. 31273 del 09.11.2020 hanno affermato che “il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis c.p.. Ed assume mero contenuto descrittivo, che peraltro registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche ambientazioni”.
Pertanto, assodata la rilevanza penalistica della fattispecie del mobbing lavorativo, che affianca ed integra quella tipicamente giuslavoristica, si potrà obiettivamente parlare di stalking occupazionale ogni qual volta la reiterata e perdurante violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro abbia determinato nel lavoratore un grave stato di ansia e paura, tanto da indurlo ad una profonda e intollerabile alterazione delle proprie abitudini di vita.

Articolo redatto dalla Dott.ssa Silvia Gismondi.