[A cura della Dott.ssa Cecilia Bonifazi]

La  Legge c.d. “Pinto”, come noto, si occupa di assegnare una ragionevole durata ai procedimenti giudiziari in vari ambiti: civile, amministrativo, penale, e fallimentare.

Dell’argomento lo studio si era già occupato in relazione ai procedimenti penali, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 10 luglio 2019 (disponibile al seguente collegamento: https://www.formicaeassociati.it/2019/07/24/processi-lumaca-la-corte-costituzionale-riapre-alla-risarcibilita-per-irragionevole-durata-del-processo-penale/); sentenza di fatto anticipata, negli stessi termini (di maggior tutela), da una pronuncia “gemella” anche nei procedimenti amministrativi – Corte Costituzionale n. 34 del 6 marzo 2019 – che ha dichiarato incostituzionale l’improcedibilità della domanda di equo indennizzo dipendente dalla mancata proposizione dell’istanza di prelievo.

Ebbene, come accennato il superamento della ragionevole durata fa sorgere il diritto a richiedere un equo indennizzo, relativamente ad ogni arco temporale eccedente.

In merito all’oggetto del presente contributo, va rilevato che la giurisprudenza della Suprema Corte aveva avuto orientamenti oscillanti circa l’applicabilità della legge Pinto alle procedure esecutive, fino alla Sentenza n. 6312/2014 a Sezioni Unite, diventata ormai punto di riferimento in materia, con la quale si stabilisce che la fase cognitiva e la fase esecutiva si possono ritenere un unicum, sommandone i rispettivi tempi processuali.

Si applica quindi alla procedura esecutiva lo stesso parametro di durata ragionevole previsto per il processo civile, sicché questa si ritiene rispettata se la procedura si conclude in 3 anni, ovvero se tra la notifica dell’atto di pignoramento e il provvedimento definitivo per la soddisfazione del credito non si supera il predetto arco temporale.

A questo computo dei termini va però escluso il lasso temporale trascorso tra la definitività della fase cognitiva e l’inizio della fase esecutiva, nonché le frazioni processuali che non siano dipendenti né dal Giudice, né dalle parti, né da terzi, ossia tutta la fase delle vendite giudiziali e delle aste, anche laddove siano andate deserte, e dei vari rinvii che non siano dovuti all’inerzia del Giudice, in quanto tali fasi fuoriescono dalla sfera di controllo dell’autorità giudiziaria, e non sono dunque calcolabili nella durata complessiva, ai fini della ragionevole durata (si veda Cass. civ., n. 8540/2015).

Per tutto quanto sopra, il creditore che ritenga leso il proprio diritto alla ragionevole durata del procedimento, potrà proporre ricorso alla Corte di Appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolta la procedura, nei confronti del Ministero della Giustizia, a pena di decadenza, entro 6 mesi dal provvedimento conclusivo della procedura esecutiva, data nella quale può non essere stato ancora eseguito il pagamento delle somme.